
L’argomento di oggi sono gli algoritmi di consenso, che in ambito blockchain sono fondamentalmente due: il proof-of-work e il proof-of-stake. Mentre il primo, sul quale si basa il mining della maggior parte delle alt coin è estremamente costoso dal punto di vista energetico, il secondo necessita di una quantità di corrente elettrica molto limitata.
È chiaro che se si abbassano i costi si abbassano anche i prezzi, ecco perché anche Ethereum ha recentemente comunicato la volontà di passare l’anno prossimo al P-o-S (proof-of-stake). Perché si risparmia? Innanzitutto non servono decine di costose schede grafiche (come nel mining P-o-W) per arrivare prima degli altri alla risposta, ed ottenere la tanto agognata commissione.
Ad un basso consumo di energia elettrica (basterà un semplice PC con CPU per il mining con proof-of-stake), si affianca anche l’assenza di ricompensa per i minatori. Se vi state chiedendo “Allora cosa mi butto a fare nel mining?”, la risposta è presto detta: i minatori grazie al P-o-S si spartiscono le commissioni sulle transazioni.
Non c’è competizione quindi, per cui se con il proof-of-work erano le grandi mining farm a spartirsi le ricompense (più potenza utilizzi, più possibilità hai di ricevere il “premio”), con il “nuovo” sistema la palla torna in mano ai piccoli miners.
Ci sono aspetti negativi del P-o-S? Sul lungo periodo potrebbe accadere che chi possiede grandi quantità di criptovaluta diventi sempre più ricco, a scapito nuovamente, della decentralizzazione. Nel caso di Ethereum gli sviluppatori han deciso di prevenire questa evenienza fissando un limite minimo e massimo per lo staking (probabilmente tra i 1.500 e i 60.000 ETH).
Altre criptovalute che utilizzano già l’algoritmo Proof-of-Stake sono Stratis, OmiseGO e Qtum.
Stiamo sempre parlando di ipotesi, per cui bisognerà aspettare il futuro per vedere cosa accadrà realmente… nel frattempo all’orizzonte spunta anche un nuovo algoritmo rivale sviluppato da Hyperledger, il “Proof-of-elapsed-time“, abbreviato in PoET.